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LA LEGGENDA DI MADONNA BORA
di Edda Vidiz Brezza


Molti, molti anni fa Vento, scorrazzando per il mondo con i suoi figli, tra cui Bora, la più bella e la più amata, capitò in un verdeggiante altipiano che scendeva ripido verso il mare. Bora si allontanò dall’allegra brigata dei suoi fratelli, per correre a scombussolare tutte le nuvole che si trovavano in quell’angolo di cielo e a giocare con i rami dei quercioli e dei castagni, che si agitavano nervosi al suo passaggio.. Dopo un po’, stanca di correre di qua e di là senza alcuna meta, Bora entrò in una grotta, all’interno della quale, nel frattempo, aveva trovato rifugio da tutta quella buriana, l’umano eroe Tergesteo.
Tergesteo era così forte e così bello e così diverso dai suoi fratelli Venti, e da Mare e da Terra e da tutto quello che fino a quel momento Bora aveva visto e conosciuto, che di colpo se ne innamorò. E fu subito passione tempestosa, passione che Tergesteo ricambiò con eguale impeto: e i due vissero felici in quella grotta tre, cinque, sette splendidi giorni d’amore.
Quando Vento si accorse della scomparsa di Bora (ci volle un bel po’ di tempo perché i suoi figli erano tanti e molti di loro parecchio irrequieti) si mise a cercarla tutto infuriato. Cerca di qua, cerca di là, cerca che ti cerca - al vedere tanta furia tutti zittivano al suo passaggio - ma un cirro-nembo brontolone, irritato da tutto quel trambusto, gli rivelò il rifugio dei due amanti. Vento arrivò alla grotta, vide Bora abbracciata a Tergesteo, e la sua furia aumentò enormemente. Senza che la disperata Bora potesse in alcun modo fermarlo, si avventò contro l’umano, lo sollevò e lo scagliò contro le pareti della grotta, finché l’eroe restò immobile al suolo, privo di vita.
Vento, per nulla pentito del suo gesto, ordinò a Bora di ripartire, ma lei impietrita dal dolore non ne volle sapere. Bora piangeva disperatamente e ogni lacrima che sgorgava dal suo pianto diventava pietra e le pietre erano ormai talmente tante, da ricoprire tutto l’altipiano.
Allora Odino, che era un dio saggio, ordinò a Vento di lasciare Bora sul luogo che aveva visto nascere e morire il suo grande amore. Ma Bora ancora non smetteva il suo pianto.
E allora Natura, preoccupata per tutte quelle pietre che rischiavano di rovinarle irrimediabilmente il paesaggio, concesse a Bora di regnare sul luogo della sua disperazione. E Cielo, per non essere da meno le consentì di rivivere ogni anno i suoi tre, cinque, sette giorni di splendido amore. Allora, e solo allora, Bora smise il suo pianto.
Le storie dei grandi amori finiti male commuovono sempre e anche Terra sentì un piccolo nodo alla gola nel vedere la disperazione di Bora. E così dal sangue di Tergesteo fece nascere il Sommaco, che da allora inonda di rosso l’autunno carsico.
Anche Mare volle dare il suo contributo e diede ordine alle Onde di lambire il corpo del povero innamorato ricoprendolo di conchiglie, di stelle marine e di verdi alghe. Così Tergesteo si elevò alto verso il cielo diventando più alto di tutte le alte colline che già coprivano quell’angolo di mondo. E i primi uomini giunti su queste terre si insediarono sulla sua collina e vi costruirono un Castelliere con le lacrime di Bora divenute pietre.
Con il passare del tempo il Castelliere divenne una città, che in ricordo di Tergesteo venne chiamata Tergeste, dove ancora oggi Bora regna sovrana, soffiandovi impetuosa: ”chiara” fra le braccia del suo amore “scura” nell’attesa di incontrarlo.

In omaggio alla splendida natura del territorio triestino – animato dalla Bora che con il suo infelice amore aiutò gli uomini ad erigere la città – i vincitori dei Tornei medioevali ricevono dalla Magnifica Comunità Tergestina delle Tredici Casade il titolo di Cavaliere della “Buriana”: la mitica spada che, in caso di pericolo, alza venti di burrasca in difesa della città sorta sul corpo di Tergesteo e - in suo perenne ricordo - chiamata Tergeste: oggi Trieste.

 

 

IL RIPOSO DEL RE
di Edda Vidiz Brezza e Renzo Arcon


Il re Carlomagno era ormai vecchio, aveva compiuto tutte le più grandi imprese ed aveva fondato un regno potente. Egli dominava l’Europa con le sue armate. ma aveva anche raccolto attorno a se tutti i saggi del regno ed aveva fondato una scuola che insegnava l’intera sapienza del suo tempo.
Un giorno, sentendosi ormai prossimo alla fine, decise di raccogliere attorno a se i paladini e fare il giro dei suoi domini per l’ultima volta. Voleva rivisitare i luoghi delle sue battaglie e salutare i buoni sudditi che tanto lo amavano. Partì così da Aquisgrana con numeroso seguito, con dispiegar di stendardi e sonar di trombe, con rullar di tamburi e grida festose dei suoi guerrieri. Attraversò tutta la terra di Francia sino alla Bretagna e poi giù sino ai Pirenei dove sostò commosso sulla tomba del suo amato paladino Orlando e poi piegò verso oriente percorrendo le dolci terre della Provenza sino alle Alpi.
Qui, aspettando il tepore della primavera, Carlo attraversò i gioghi montani e scese nella pianura Padana ricca di acque e percorsa dal grande fiume Po. Giunse a Venezia che guardò scintillare in mezzo alla sua laguna e sospirò: non era mai riuscito a conquistarla e forse, si disse, era meglio così: sarebbe diventata una grande città, regina del mare.
Carlomagno proseguì il suo viaggio incerto sulla direzione. Tra i suoi paladini c’era chi lo consigliava di prendere di nuovo la via delle Alpi e attraversare l’Austria per poi giungere nella Germania e quindi fare ritorno a casa. Ma Carlo era di ben diverso avviso. Così disse ai suoi fedeli compagni d’arme che voleva dirigersi verso oriente: “Là dove il sole nasce anch’io rinascerò”.
Il re e il suo numeroso seguito proseguirono il viaggio attraverso le pianure friulane, il vecchio regno dei Longobardi, ricevettero l’omaggio del Patriarca di Aquileia e giunsero dove finisce il mare e dove sorgeva una piccola città: Tergeste. Qui giunto, il re volle riposare.
Non era ancora sorto il sole quando re Carlo fu svegliato da un forte sibilo. Subito si alzò e si diresse alla finestra per vedere cosa stava accadendo. Il più anziano dei paladini corse subito al suo fianco: “Non è nulla maestà, gli disse, è solo il vento: quel vento che i Tergestini chiamano Bora e che a volte soffia fortemente”.
Il re uscì nel vento, un vento che gli ricordava l’impeto della sua giovinezza, delle battaglie vinte, degli amori conquistati, di tutta quella forza che oramai si sentiva mancare. Carlo montò sul suo cavallo e, nonostante le proteste dei suoi paladini, volle correre da solo con il vento. Il vento si placò e con lui si placò anche l’ardore del re che, ritornato all’accampamento, ordinò subito ai suoi di ripartire.
Tornato ad Aquisgrana si ritrovò di nuovo immerso nella vita del palazzo reale. I figli che, per un po’ di potere in più, si azzannavano a vicenda senza minimamente pensare di dover lavorare per conquistarsi quello che il padre aveva accumulato con tanta fatica; la moglie che, mai contenta, si dimostrava sempre più gelosa delle dame di corte e persino delle ancelle: dame e ancelle che Carlo, ahimè, già da un certo tempo aveva finito di concupire; i suoi paladini che nell’affannoso desiderio di esaudire i suoi desideri, glieli avevano oramai fatti passare del tutto; i suoi servi, taluni ancora così giovani, che lo facevano sentire più vecchio di quello che ancora non fosse ed infine il suo popolo che, nonostante tutti i suoi tentativi, non era mai contento.
E quella sera, come aveva fatto ogni sera della sua vita, Carlo si ritirò nelle sue stanze e prima di dormire si rivolse al Signore. Spesso il sonno di Carlo era tormentato da incubi spaventosi, perché anche Carlo aveva un lato oscuro nel suo cuore, ma parlare al Signore lo tranquillizzava e gli donava quella sicurezza di cui aveva sempre tanto bisogno.
Sebbene non avesse mai ricevuto una risposta diretta, in cuor suo Carlo sapeva che dopo la preghiera tutte le sue decisioni erano giuste quasi fossero dettate dal Signore e così, per tutta la vita non si era mai addormentato senza aver pregato. “Signore”, disse Carlo, rivolto allo splendido Crocefisso intarsiato in legno d’ebano appeso alla parete, “io sono pronto ”. E il Signore, per la prima volta, gli apparve in tutto il suo splendore. Carlo stranamente non si stupì, non ebbe paura, non pensò neppure come mai dopo tante preghiere il Signore si fosse fatto vivo solo ora e una grande pace scese nel suo cuore. “Carlo, figlio prediletto” gli disse il Signore “avrei preferito tu continuassi ancora a lungo il tuo cammino su questa terra.
“Dio mio” rispose Carlo “ho conquistato più terre di quelle che mai avrei potuto sperare e in tutte ho portato il tuo nome costruendo chiese e cattedrali , ho sempre pensato al bene del popolo e ho sempre rispettato le tue leggi: ora sono stanco e sento il bisogno di riposare e di venire finalmente a Te mio Signore!”
“Carlo, Carlo” lo ammonì il Signore “ io sono più a mio agio nel cuore di un semplice uomo che in una cattedrale. E il tuo cuore non sempre è stato pieno di me....non quando hai ucciso – anche se a parer tuo a fin di bene – non quando hai fornicato – anche se questo ti faceva sentir bene – non quando hai peccato di gola e di invidia, e lasciamo perdere quanto altro ancora. Diciamo la verità molto hai preteso in mio nome ma anche molto hai fatto per tua ambizione! Ed è per questo che io non posso accoglierti vicino a me in Cielo prima del giorno del Giudizio. Ma tu sei sempre stato il mio figliolo prediletto sulla terra e per questo nell’attesa ti farò riposare qui, senza farti provare l’amarezza del Purgatorio!
Carlo, che ben conosceva il lato oscuro della sua anima, sapeva che il Signore aveva ragione ma si sentiva coraggioso come non mai e per questo osò parlare ancora al Signore: “Signore, riconosco che a volte il mio cuore è stato impuro ma ti prego non lasciarmi qui, fra queste mura, dove sarei continuamente ferito dalle discussioni dei miei figli, dai lai di mia moglie e dalle pretese dei miei paladini: insomma l’inferno in terra!”
Il Signore rise a questa uscita perché Carlo non si immaginava neppure quale pena fosse l’inferno, comunque poiché egli tutto poteva, decise di accogliere ogni sua richiesta, a parte quella, beninteso, di andare subito in Paradiso! “Allora Carlo” chiese il Signore, anche se ben sapeva cosa Carlo desiderava, “cosa posso fare per te?”
Carlo sorrise felice. “Signore” disse “ se non posso aspettare il Giorno del Giudizio vicino a Te vorrei attendere il grande momento in un luogo che rispecchi il mio animo e mi faccia sentire finalmente a casa... come non mi sono mai sentito in questa reggia così piena di spifferi e di gente bizzosa e pretenziosa! Vorrei ritornare là dove soffia Bora e nasce il mare “ . Il Signore si sentì triste - o qualcosa di simile alla tristezza poiché in lui tutto era beatitudine – perché gli dispiaceva che gli uomini sulla terra perdessero un re così saggio e valoroso; ma poiché già da tempo aveva deciso che nel suo creato tutto doveva evolversi e morire per poi risorgere, nulla poteva fare se non accontentare il suo figlio prediletto Carlo” Per una volta tanto fu il Signore a dire “Sia fatta la tua volontà, Carlo, parti pure figliolo mio ed io ti invierò il mio messaggero più fidato per guidare il tuo cammino” E così, proprio come era apparso, il Signore scomparve e Carlo si addormentò in un sonno senza incubi.
Il re guardò il cielo che stava schiarendo, si volse al paladino che dopo Roncisvalle aveva preso alla sua sinistra il posto di Orlando: “Fai preparare il mio cavallo: voglio seguire questo vento, da solo!” Il vecchio compagno d’arme fissò il re negli occhi e sentì i suoi colmarsi di lacrime. Si rivolse al re come non aveva mai osato fare: “Sire, non ti rivedrò mai più, è vero?”
“Quando il mondo avrà ancora bisogno di noi, amico mio, allora verrò a chiamarti”
“Ed io sarò al tuo fianco, Maestà!”
Senza aver bisogno neppure di una spinta come purtroppo gli accadeva negli ultimi anni, Carlo salì a cavallo e spronò seguendo le raffiche del vento. Il destriero s’impennò e partì in un galoppo veloce eppure leggero, tanto che pareva non toccasse terra.
Mentre il cielo diventava sempre più azzurro e le stelle si spegnevano al calore del sole, Carlo giunse in quella valle che oggi chiamano Rosandra e che era immersa nell’ombra perché il sole non aveva ancora superato il ciglione roccioso. Seguendo il torrente, Carlo si avvide che la strada finiva nei pressi di un mulino e così scese da cavallo. Si fermò davanti all’animale accarezzandogli il muso: “Amico mio, disse, siamo stati una cosa sola per tanti anni ora è tempo che ci dividiamo seguendo ognuno la propria natura, entrambi liberi…” Il cavallo parve comprendere, nitrì sommessamente, si volse e ripartì al galoppo immergendosi nel sottobosco.
Carlo proseguì a piedi seguendo il vecchio acquedotto costruito dai romani. Arrivò ben presto all’inizio di una salita, lasciò il torrente in basso e si arrampicò aiutandosi con le mani, afferrando gli esili tronchi degli arbusti e i rami bassi degli alberi. Stanco e affannato per l’età, giunse ad un punto dove si poteva scorgere parte della valle. Era un piccolo ripiano ai piedi di una lunga cresta rocciosa che si innalzava verso la sommità del monte chiudendo uno stretto canalone. Carlo si sentì mancare le forze. Si inginocchiò, levò la spada dal fodero e vi si appoggiò. “Signore, pregò, ora i miei giorni sono finiti. Ho compiuto quello che Tu mi hai chiesto di fare ed ora mi affido a Te!”
Mentre era così assorto, il sole uscì da dietro le rocce e illuminò la valle. Una luce abbacinante parve uscire dall’astro e condensarsi in una figura che si fermò davanti al re. Era d’aspetto imponente e due grandi ali iridescenti coronavano il volto severo. Teneva in mano una grande spada. “Alzati Carlo” disse, il momento è giunto: anche se hai abbandonato il tuo corpo del quale eri tanto fiero le forze che lo sorreggevano non moriranno!” La voce possente percorse il cielo e Carlo sentì la sua vita scorrere dalle sue mani e pervadere il ferro della sua spada.
L’arcangelo impugnò l’arma e spalancò le grandi ali. La terra fremette e il vento parve raddoppiare la sua forza: “Respiro della Terra!” gridò l’arcangelo, “Guida il nostro cammino!” Seguendo il vento l’arcangelo attraversò la valle e si fermò davanti ad un’alta parete di roccia. Batté col pomo della spada sulla pietra e subito si spalancò un’apertura tanto ampia da permettergli di entrare ad ali spiegate. Mentre volava, senza incontrare ostacoli, la terra pareva ritirarsi davanti a lui e gli esseri delle profondità si nascondevano nei bui recessi delle caverne tremando di paura. In breve l’arcangelo giunse in una grande caverna in fondo alla quale scorreva lento e silenzioso un corso d’acqua limpida. L’arcangelo si fermò: “Ora attraverserai l’acqua, re Carlo, ed entrerai nella leggenda” Ripiegò le ampie ali e attraversò il piccolo fiume senza incresparne la superficie. Dall’altra parte c’era una grande roccia squadrata. che formava una specie di trono di pietra. Carlo vi si assise, sereno e beato come non lo era mai stato.
L’arcangelo adagiò delicatamente la spada ai suoi piedi e gli disse: “Dormi ora, re Carlo, entra nella serenità di un destino compiuto. Oltre l’illusione di spazio e tempo, oggi tu sei morto e rinato e quando il tempo verrà, un risuonare di trombe spalancherà le viscere della madre terra e tu ne uscirai pronto all’ultima battaglia!
Indi si volse senza attendere risposta e mentre ripercorreva il cammino appena compiuto la terra si richiudeva dietro di lui. Presto emerse dalla roccia e, spalancate le ali grandi e luminose come arcobaleni, si innalzò sopra la valle e verso il sole. Guardò in basso per un’ultima volta e vide la valle e le colline intorno, e la striscia argentea del torrente e, lontano, la piccola città: “Tergeste, per quanto dolore tu veda passare sopra le tue case, troverai sempre un sorriso!” disse e sparì.

Qualche secolo dopo i triestini eressero, sul ripiano ai piedi della cresta rocciosa, una piccola cappella e la dedicarono a San Michele Arcangelo.

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